Due riflessioni di una persona speciale, sulla malattia

Due scritti di Severino Cesari, creatore della Collana Stile Libero , presso Einaudi.

Tema. la condivisione della malattia, parte prima.

“Buongiorno Severino, vedo che sei tornato al lavoro”.
La farmacia di Piazza Vittorio è appena aperta. Mi accoglie la bella voce robusta di Sebastiano. Il tono, leggermente più serio del solito. C’è solo lui.
Sebastiano è il mio pusher, sa tutto di me. (Non è l’unico, ma degli altri, anzi delle Altre, le Variamente Bellissime, parlo un’altra volta). Sebastiano sa tutto dei milleduecentotre farmaci di ogni genere che mi necessitano, e di cui mi assicura il rifornimento impeccabile. Aggiunge a volte consigli saggi e competenti, frutto di preparazione in molti campi della biologia e della chimica. Aggiunge anche, “ma è a una visione d’insieme delle cose, che dobbiamo tendere”.
Va bene, saprà tutto di me. Non capisco però adesso di che cosa stia parlando.
“Beh, sei stato tu a scrivere in un post che al risveglio ti eri sentito bene e volevi condividere. Eri stato male a tal punto che nemmeno riuscivi a lavorare. Poi quella specie di risveglio magico. La sensazione di esserti liberato del male. Ti hanno risposto cinquecento persone. Dovresti essergli grato, invece di sbuffare”.
Capisco adesso. Sebastiano è anche amico di fb. E legge.
Potenza di facebook, è il primo pensiero. Che fa diventare i fatti tuoi, se li racconti, una notizia. Piccola quanto vuoi ma pubblica.
Bel casino. Accidenti a facebook, è il secondo pensiero, del tutto ingrato.
“Sebastiano, io sono molto timido, lo sai, ed era la prima volta che così tante persone mi manifestavano tutto quell’affetto. Non riuscivo a crederci. Non ce l’ho fatta a rispondere, sono scappato”.
“Sono scappato e non ci ho pensato più, dovresti dire. Bello stronzo. Da una settimana sei pure scomparso di nuovo, a parte Kobane e cose del genere, con tutto il rispetto. Fossi in te, andrei a casa e scriverei un bel grazie. E’ sabato, non c’è neanche la scusa che devi lavorare. Perché ora sei tornato al lavoro, giusto? Le cose vanno meglio, giusto? Nei limiti del possibile, ma è quel che conta”.
Non c’è scampo. Mi incarta la merce e mi saluta con un “E mi raccomando”.
Saluto a mia volta, sulla porta, la prima delle Variamente Bellissime. E’ un po’ trafelata, desiderosa evidentemente di indossare il camice bianco. Le sta così bene, del resto.
Infinite sono le forme della bellezza.
Infinita la magia della vita.
E’ da stupidi avere paura perché non sai ringraziare.
E’ proprio da stupidi non saper ringraziare, aggiungo.
Quanto ti perdi.
Cinquecento persone che ti dicono, tu sei importante per me, questa cosa che hai scritto è stata stamattina importante per me, non è stata inutile, dunque anche io sono importante per te, è una relazione, dunque forse non lo sai ma abbiamo cominciato a tessere un legame che fa entrambi meno deboli - ed è la prova che siamo vivi, e ci saranno altri risvegli ogni giorno, per tutti noi.
Avete ragione.
Dico grazie a ciascuna, a ciascuno di voi, dal profondo del cuore.
Ora il nuovo giorno può cominciare davvero.
Grazie, Sebastiano.
 Tema: la condivisione della malattia, parte seconda.
Il popolo del port va in vacanza
Due giorni fa ero in clinica, a Quantico.
Io dico Quantico, è più breve.

Mi raggiunge il professor G.. Non l’ho mai visto in questo camice verde, largo e svolazzante.
‘Mi scusi ma preparavo in camera operatoria, sto impiantando un port. Come andiamo?’
Vigorosa stretta di mano. Sempre gioviale, gentilissimo. Scorre il referto degli ultimi esami.
‘Molto bene, ha fatto i compiti, complimenti. Possiamo confermare la vacanza. Così lei salta agosto e vediamo di combinare per i primi di settembre, le faremo avere il foglio dopo la terapia. La lascio nelle mani di suor Nerea.’ – e svolazza già via.
Ma intanto l’ha detto, vero?
Possiamo confermare la vacanza. Così lei salta agosto e vediamo di combinare per i primi di settembre.
L’ha detto.
Sulla soglia, si volta.
‘E ci saluti Paolo Sorrentino’.
Il regista ha avuto la fantasia di chiedermi una piccolissima parte in un suo film famoso, che è molto piaciuto a G.. Mi divertii molto, credo senza procurare danni. Da quel momento, per sua bontà d’animo G. tende a immaginarmi immerso, non appena fuori da Quantico, in intimi e continui conversari con Sorrentino. Non voglio deluderlo.
‘Certamente. Ma sa com’è. Ha tanto da fare. Una trottola’.
E così ci siamo, pensai. Dopo le infusioni di oggi mi lasciano libero per tutto agosto.
‘Se permette le apro un po’ il collo della maglietta, così scopriamo la clavicola’. Suor Nerea, l’infermiera di turno alla camera 57, che molto spesso si occupa di me, armeggia con le dita scure, affusolate.
Ventisette anni, tre lauree, parla quattro lingue suor Nerea, alta e flessuosa come una giovane palma. Bianco abbagliante negli occhi neri, scura come solo le figlie dell’India sanno essere. Adora parlar bene dell’Italia. E benissimo della Congregazione.
Ha messo allo scoperto la modesta protuberanza, a destra in alto nel torace, in corrispondenza della vena succlavia, dove è impiantato il mio port.
Il ‘mio’ port. Che da due anni non mi tradisce.
Non me l'hanno impiantato qui, ricordai. L'hanno fatto lassù, al Policlinico Adelphi.
Chissà a chi starà impiantando il suo port, G..
Chissà quanta gente gira con un port sotto il vestito, come Batman.
Cioè non come Batman, ma ci siamo capiti.
Un catetere venoso centrale, un Cvc sotto gli straccetti di Benetton o di Issey Miyake, sotto camicette lise o Yamamoto, sotto tailleur, giacche e, d’inverno, pullover, maglioni di tanti colori.
Suor Nerea disinfetta con cura, tenendo sempre scostato il bordo della maglietta. Con l’altra mano avvicina al port un ago enorme, una cannula in realtà, di notevoli dimensioni, una tubatura per dighe. Conosco bene.
‘Adesso inseriamo l’ago per l’infusione. Non pensi a niente. Il solito bel respiro. Si chiama ago di Huber, non so perché. Ecco, abbiamo fatto’.
Ho sentito benissimo. Il momento in cui l’ago penetra sottocutaneo, poi il momento in cui si connette con il port.
Una connessione, in effetti.
L’ago entra nel port, il port tramite l’ago connette l’organismo alla macchina erogatrice.
Come una macchina che in realtà si completi e cominci così a funzionare.
Quando ero in dialisi, il principio era all’incirca lo stesso.
Comunque, una connessione uomo-macchina.
Dicono che un port-a-cath sia testato per duemila di queste connessioni.
Quante ne avrò fatte io?
Suor Nerea incerotta bene tutto intorno, poi, soddisfatta:
‘Ecco, così non si stacca’.
Si alza, in un fruscio di vesti.
‘Poi la torno a trovare. Ho sentito che le lasciano agosto senza terapia. Va in vacanza?’
Chissà a chi sta impiantando il suo port, il professor G., qui a Quantico.
Chissà a chi stanno impiantando i loro port, in quella sorta di Geenna che era il reparto dell'Adelphi.
Mi immagino un popolo ampio, un corteo lento senza bandiere, di segreti portatori di port. Una indistruttibile legione paziente, che aumenta le sue fila ogni giorno.
Se vi impiantano un port è come avere una presa elettrica sotto la pelle, predisposta per attaccare la spina ogni volta che volete. Attraverso la presa vi collegate a una macchina, appesa a un treppiede, che eroga e centellina le flebo che contengono l’energia elettrica, pardon i farmaci previsti dal protocollo della vostra terapia, che in questo modo arrivano all’organismo nel modo più efficiente e per lui meno dannoso.
Un dispositivo biotecnologico che consente un accesso venoso centrale permanente.
Un catetere ad alta tecnologia, in sostanza.
Altro che le braccia blu e le vene rotte per i soliti aghi dei prelievi manuali, quando l’impianto non ce l’hai.
Sono molto orgoglioso del mio port.
E’ in effetti la cosa più simile a un Bat-apparecchio, un Bat-qualcosa che mi sia capitato.
Voi non lo sapete, ma io ho un port, sotto la polo.
E adesso vado pure in vacanza, non appena stacco da qui.
Ecco,‘staccare’ è il verbo giusto.
‘Sì, suor Nerea, andremo qualche giorno in un’isola qui vicino. Ventotene’.
Ecco, l’ho detto.
‘E lei non ci va, in vacanza?’
Si schermisce, chiude un momento gli occhi.
‘No, proprio in vacanza no, c’è tanto da fare qui, nella Casa delle Suore. Però tutte le domeniche prima di cena usciamo qui intorno a passeggio con Suor Benedetta’.
E’ proprio un moto di affetto, che nasce spontaneo dal cuore, senza ritegno.
Per Suor Nerea e la sua vacanza domenicale, e per le sue sorelle.
Per i bravi medici di Quantico.
Per G., che sta impiantando ancora il suo port.
Per Paolo Sorrentino, l’amico geniale. Ciao Paolo, non ti vedo da anni, a parte le tue fugaci apparizioni al Milky Bar, non ti stupirai di essere molto apprezzato anche qui.
Per il popolo dei port, che si aggira forse confuso e disperso, forse segretamente umiliato.
Che non ha ancora imparato ad essere orgoglioso di portare il port.
Oggi la buona notizia è questa, popolo del port, e voialtri che per amore assistete il popolo del port, e avete, per forza, sviluppato una sorta di simbiosi, di cui a volte vi chiedete il perché.
La notizia è che possiamo andare in vacanza anche noi.
Noi popolo del port, con gi amici e le amiche.
Io, ci andrò.
Tra pochissimi giorni, mi dissi.
Facciamo domenica.
E’ consentito essere amico di una suora? Una suora poi, che è anche la tua infermiera? Spero di sì.
Staccami allora presto questo ago, questa cannula, questo tronco di pino, per quanto comodissimo e tecnologico ed efficiente, mia nuova amica.
E’ pure bello essere Batman ma a volte, che fatica.
Voglio andare a Ventotene.
Voglio camminare nell’acqua del mare.


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